Sala piena e gente in piedi, come da consuetudine. Un'ottima cena comunitaria e, a seguire, una bellissima conferenza, informale e genuina come accade dalle nostre parti. Mario Merlino, a Casaggì, era atteso da tempo. Una persona speciale, di quelle che ti raccontano con l'umiltà e la passione che le travolge i fatti che hanno animato la propria esistenza. Persone dotate di una semplicità e di una vanità positiva come poche altre, che riescono a trasmetterti sempre qualcosa che va oltre il concetto e la logica. E ieri sera è successo questo, per due ore suonate.
Mario ci ha raccontato il suo sessantotto, quello più bello. Quello dei tanti giovani che, da destra e da sinistra, scelsero insieme di ribellarsi ad un mondo vecchio, ipocrita e malsano. Lo fecero spensieratamente, senza steccati e senza odio, con l'impeto dei vent'anni e l'illusione che niente sarebbe più stato come prima. Dovettero fare i conti, a sinistra e ancor di più a destra, con gli adulti della propria parte, infastiditi da una trasversalità d'intenti che non s'aveva da fare. E così arrivarono i bastoni e il sangue divise per sempre i rossi e i neri. Da quel momento avrebbero parlato le p38, le bombe e i morti sul selciato.
Eppure in quei giorni c'era stato tutto: il sogno, la speranza, la lucida follia, la gioventù, la ribellione, la musica, la poesia, la cultura, le partite di pallone nella facoltà occupata, gli scontri con le guardie. Quei giovani erano "spirito anticonformista per eccellenza, antiborghese sempre, irriverente per vocazione", come ebbe a dire Robert Brasillach guardando i giovani fascisti della generazione precedente.
Come sarebbe andata senza le pelose interferenze dall'altro? Non è dato saperlo, e forse non importa. Quel che importa è che sia stato, perchè talvolta ciò che si fa non si fa per il gusto di ottenere una vittoria, ma perchè - più stoicamente - "combattere è un destino".